(A mio padre e a mia madre)
Carchi borta, dae sa bentana, m’es passiu de intendere a nuscu su mare de domo. In cussu pretzisu mamentu, appo pessau chi b’ata unu zertu balore a essere naschios e creschios in custa banda de mundu.
In questa parte del mondo, su questa isola in special modo, quando viene settembre, il vento cambia di verso e la stagione di profumi. Al maestrale dei giorni di sole e di mare increspato, succede il libeccio che alza onde lunghe
Il faro abbandonato sfiora il cielo.
Ieri era livido durante la tempesta e oggi, così come lo racconta il pittore, è adagiato paziente sul promontorio granitico.
Quasi tocca le viscere del mare,
si nutre di alghe e beve acqua salmastra.
I gabbiani, come antichi aèdi, trascinano stralci di poesia,
su quel faro che un tempo salutava i pescatori e parlava coi dispersi.
Saludabat(a) sos piscadores(e) e faveddabat(a) a sos omines(e) isperdios in mare.
Ora non si lamenta più
del suo stare sempre in acqua (…tiri tiri de abba)
del suo stare quasi fermo
del suo stare notti intere a car’a mare.
Domani, sarà una notte ferma. Il mare a riva non si muove di un passo. Vedi, quand’è così, non è nemmeno mare, piuttosto pare cielo.
Mare e chelu si cuffundene. In fondo il mare è un cielo ribaltato.
Infatti, ora che mi ci fate pensare, i gesti del nuoto sono i più simili al volo.
Le braccia si offrono all’acqua come le ali all’aria. Un bravo poeta lo disse e aggiunse anche che nascere in mare è come passare da un liquido stretto ad uno sconfinato. Ed è vero, il mare contiene e trattiene come un grembo materno.
Io, in realtà questo non lo so!
Ho letto che per quelli di noi che nascono in Barbagia, i panorami si aprono solo su valli, promontori e monti carichi di querce e lecci “da dove provengono respiri calmi, i sospiri profondi della terra”. I nostri orizzonti sono chiusi, come le nostre parole che sono dure come spine e pietre. Noi guardiamo verso la valle e lo immaginiamo il mare che non abbiamo. Niente di più. Quelli che dicono di riuscire ad intravederlo… mentono! Il nostro Mediterraneo è solo interiore.
Comunque, che si nasca in costa o su impervi colli, il Sardo finirà sempre per emigrare attraversando quel mare.
Tamudande da unu locu a s’ateru.
Lo fa perché… sicut erat; o perché nel mare c’è il riflesso di noi stessi; o ancora perché è bello viaggiare via mare.
I viaggi veri sono quelli per mare, con le navi, non coi treni. L’orizzonte dev’essere vuoto e deve staccare il cielo dall’acqua. Ci dev’essere niente intorno e sopra deve pesare l’immenso, allora si che è viaggio!
Tutto intorno c’è solo mare e cielo. Mare e chelu.
Grazia Deledda, splendida penna barbaricina che varcò il mare per meglio respirare, da qualche parte ha scritto … su mare est(e) comente una bentana, una barandilla chi si fachet ispunda. Cioè “il mare è come una finestra, una balaustra che diviene la sponda di attese, di un sogno, di un amore verso altre vagheggiate coste”.
Verso un altrove. Sia per chi si allontana dalle proprie sponde, che per quelli che approdano portati da acque straniere e che di volta in volta chiamiamo migranti, extracomunitari, profughi… peggio, clandestini.
Nel 2024, secondo i dati del Dipartimento di Pubblica sicurezza, gli esseri umani sbarcati sulle coste italiane sono stati 13.779. I minori 8.024. Le vittime e i dispersi nel Mediterraneo sono stati più di 2.200; 1.700 solo sulla rotta del Mediterraneo centrale, ovvero quel tratto di mare tra la nostra isola e quella dei siciliani.
Il Mediterraneo centrale, infinita tomba madida di acqua salmastra e corpi dimenticati, lambisce a sud le coste orientali della nostra terra.
In domo nostra!
Sotto gli occhi spenti di questo faro. Che non si è accorto di nulla e non parla più ai dispersi, “ai cristi invisibili”, né ha colto la vastità di questa strage.

Questo faro spento, è ignaro di tutto. Issu non s’est(e) abbizzau de nudda !
Come noi del resto!
Eppure Virgilio nell’Eneide ci consegna l’immagine di una Didone capace di accogliere, con parole potenti, i profughi troiani giunti nei lidi della sua Cartagine: “Se volete fermarvi nel mio regno, sappiate che la mia città è anche la vostra. Tirate a secco le vostre navi, io non farò certo differenza tra Punici e Troiani”.
Noi, invece, non abbiamo saputo parlare ai dispersi, non li abbiamo difesi da onde fattesi muraglia e tanto meno siamo stati fari accesi volti al mare.
Perciò pittore, grazie!
Grazie d’esserti fatto portavoce di quella compassione antica e di aver dipinto su questo cielo sardo, una preghiera laica che educa e protesta:
Mare nostro che non sei nei cieli
e abbracci i confini dell’isola e del mondo,
sia benedetto il tuo sale,
sia benedetto il tuo fondale.
Accogli le imbarcazioni senza una strada
e custodisci le vite cadute sul viale,
dai loro carezze, abbracci, baci in fronte,
fai loro da padre e da madre.
Mare nostru chi non ses in sos altos chelos,
facheti babbu e facheti mamma.
Francesca Capra