Eroi sconosciuti

Il 16 settembre 2025, per le Edizioni “Domus de janas”, è uscito il libro di Lucia Becchere “Juanne – Storia di un soldato e della sua famiglia“.

Giovanni Foddai è lo zio di Lucia, è vissuto a Siniscola e sicuramente molti lo ricorderanno con la sua grande scarpa ortopedica al piede destro, mentre preso dalle sue meditazioni e forse dai suoi incubi, sedeva in qualche punto di ritrovo.

L’affetto nutrito per questo zio ha portato Lucia, dopo una lunga ricerca documentale e familiare a dedicargli un libro affinché nessuno dimentichi questa persona, perché anche attraverso il suo sacrificio, l’Italia e anche tutti noi abbiamo avuto la possibilità di una vita libera e democratica.

Riprenderemo più avanti il discorso su questa nuova fatica dell’amica Lucia Becchere.

Pubblichiamo oggi un articolo apparso su L’Ortobene che Lucia, nell’anno 2015, ha dedicato a Tziu Juanne per riportarlo alla memoria dei tanti suoi concittadini e collocarlo tra le persone più illustri di Siniscola.

Grazie Lucia.

Antonio Murru

RICORDO DI UN MILITE IN GUERRA

Abile arruolato! E il sangue delle sue ferite tinse di rosso il manto bianco degli Appennini.

Il rumore acuto del clacson annunciò l’arrivo della corriera che si fermò con lo stridio dei freni davanti ad una folla rumorosa accorsa a salutare quel giovane chiamato a visita di leva.

Abile arruolato” si decretò e con queste parole fu deciso il suo destino.
Giovanni Foddai, quel giorno non pensava proprio che la stessa corriera, sei anni dopo, l’avrebbe riconsegnato alla famiglia devastato nel corpo e nello spirito.

Classe 1921, sesto di otto figli, lasciò Siniscola appena diciannovenne il 24 gennaio del 1940.
Nel gennaio del ‘41 entra a far parte del 68° Regg, di Fanteria a Novara nella caserma Perrone, oggi sede di un campus universitario. Una cartolina ricordo lo ritrae alla finestra con un commilitone e un’altra con l’intero battaglione.

Dall’agosto dello stesso anno a Viterbo, frequenta la scuola per paracadutisti da poco istituita con Regio Decreto. Otterrà la qualifica nel luglio del ‘42, farà parte dello squadrone “Folgore” 185 Regg. “Nembo” e verrà trattenuto alle armi in territorio dichiarato in stato di guerra.
Nello scacchiere Mediterraneo partecipa alle operazioni militari svoltesi in Sicilia e nelle Province di Foggia, Bari e Brindisi.

Gli eventi precipitano: l’Italia a fianco dei tedeschi viene travolta dalle disfatte belliche e le truppe del generale Eisenhower sbarcano in Sicilia la notte fra il 9/10 luglio del ‘43. Vittorio Emanuele III dopo la Riunione del Gran Consiglio trae in arresto Mussolini, Badoglio annuncia le dimissioni dello stesso concludendo il discorso con una formula ambigua: “La guerra continua”.

Contro chi? Con chi?

Con l’armistizio dell’8 settembre gli anglo americani chiedono la nostra resa incondizionata e la fine delle ostilità. Significa uscire dall’asse con i tedeschi di cui fino a quel momento eravamo stati alleati.
Il re lascia Roma e si trasferisce a Brindisi, capitale del piccolo regno del Sud liberato dagli alleati mentre l’esercito senza commando è allo sbando. Alcuni ufficiali sottopongono le truppe a referendum per la scelta dello schieramento. Sono in pochi a voler combattere con i tedeschi, la maggior parte sta con gli alleati. Segue l’ultimatum di Hitler: consegnare le armi o restare con i tedeschi, aderire alla repubblica di Salò o essere tradotti in Germania nei campi di concentramento.

Giovanni Foddai combatte a fianco degli alleati.
Viene catturato in combattimento nei pressi di Chieti il 6/2/1944, e fatto prigioniero fino all’agosto del ‘46. Chieti si trova a 330 metri di altezza, d’inverno la zona è soggetta a nevicate perché vicina alla Maiella ed al Gran Sasso il massiccio più alto degli altipiani dell’Abruzzo Centrale. Quel tragico giorno il nostro soldato fu ferito gravemente ad una gamba e il suo sangue tinse di rosso quel manto bianco della montagna violando il candore della neve così come ne fu violata la sua giovinezza.

Catturato e caricato a dorso di un mulo veniva condotto prigioniero, cadeva in continuazione perché non riusciva a tenersi in sella e per questo fu più volte minacciato di morte.
Il nemico desistette da quel proposito perché certo che non sarebbe sopravvissuto abbandonandolo al suo destino in un piccolo paese sul versante di quelle montagne. Una giovane coppia lo soccorse, lo ospitò e gli prestò le prime cure. Lo tenne nascosto accudendolo amorevolmente per alleviargli le atroci sofferenze causate da quell’arto che rischiava di andare in cancrena.

Le sue condizioni andavano migliorando seppur lentamente quando, a seguito di un rastrellamento, i tedeschi in ritirata lo scovarono e lo condussero in Germania. Per anni fu tenuto prigioniero in una tenda, minacciato di morte e torturato con un ferro rovente passato sulla ferita. Le torture fisiche e psicologiche avevano minato quel giovane soldato un tempo forte e prestante.
Gli raccontavano che la Sardegna non esisteva più perché rasa al suolo dai bombardamenti e che nessuno dei suoi familiari era sopravvissuto.
Questo faceva crescere in lui lo sconforto e la disperazione.

Fece ritorno a casa non alla fine della guerra ma solo nell’agosto del 1946 quando avvenne lo scambio dei prigionieri.
Fu rintracciato dal fratello in condizioni psico-fisiche gravi, in uno stato confusionale.

Nei suoi racconti confusi e frammentari narrava degli orrori della guerra, della lunga prigionia, della ferita che sanguinava incessantemente, delle quotidiane minacce di morte, delle torture subite, dell’indifferenza dei suoi aguzzini e del suo smarrimento quando riprendeva conoscenza dopo aver perso i sensi. Le torture fisiche subite si potevano leggere nei segni piagati della gamba destra ora più corta della sinistra di sette centimetri. I tendini necrotizzati avevano reso il piede equino. Claudicante, il suo corpo non riusciva a tenersi in equilibrio e deambulava a fatica.

Tenerlo in vita per i suoi carcerieri aveva un solo scopo: faceva parte degli IMI, i militari italiani internati in attesa della fine della guerra e in quanto tale era merce di scambio con i prigionieri tedeschi.
La famiglia da troppo tempo non aveva più notizie di lui. Un giorno il padre che lavorava al telegrafo e ne conosceva l’alfabeto, sull’uscio dell’ufficio postale capta e codifica il messaggio che quel suo giovane figlio veniva dichiarato disperso dal 6-2-44. La notizia gettò la famiglia nello sconforto, la madre colpita da tanto dolore rifiutò il cibo e si spense poco dopo all’età di 57 anni. Mia nonna Lucia fu un’altra vittima sconosciuta della guerra.

Il destino si accaniva ancora su quella famiglia già così duramente colpita.
A Roma moriva di broncopolmonite Giuseppe, l’altro figlio diciannovenne arruolato nelle finanze. Era il 21 agosto del 1946 quando ai suoi ne veniva comunicato il decesso.
Il fratello maggiore Gabriele mentre si trovava nella capitale per il pietoso rito della sepoltura, venne a conoscenza tramite la Croce Rossa che forse Giovanni si trovava fra i prigionieri di guerra in un campo di raccolta a Napoli.

Si precipitò in quella città e lo cercò fra tanti volti sconosciuti accomunati dalla stessa sorte. Lo trovò in preda al dolore e allo scoramento mentre si lamentava seduto su di una panchina all’interno della struttura. Era solo, in stato confusionale e sofferente. Si avvicinò a lui col cuore in tumulto. Lo riconobbe mentre Giovanni ignorava quell’immagine familiare che non faceva più parte del suo vissuto, dei suoi affetti.

Fu terribile! Lo strinse a sé nel vano tentativo di metterlo in piedi.
Quella gamba maledettamente ferita con parecchi fori che ancora sanguinavano, non gli permetteva di tenersi in piedi. Gabriele era un bravo falegname, usci alla ricerca affannata di una bottega, comprò delle tavole per costruirgli le stampelle e poter affrontare il viaggio di ritorno.

Giovanni, che ora si lasciava condurre docile come un bambino indifeso mentre il fratello lo proteggeva da tutto e da tutti, era privo di documenti e quindi senza identità. Per lo stato italiano era un anonimo sconosciuto.

In famiglia trovò ad accoglierlo il padre, le sorelle e un altro fratello.
Quel suo ritorno aggiunse dolore a dolore. Accolto amorevolmente da tutti ricominciò una nuova esistenza e benché accudito e confortato con amore, faticava a prendere in mano la sua vita. Cominciava per lui e per la sua famiglia un lungo calvario umano.

Fu un triste peregrinare fra ospedali militari e civili, una lotta per il riconoscimento della sua identità che durò lunghi anni. Le scarpe ortopediche sostituirono le stampelle e pian piano i fori della gamba si cicatrizzarono.

A seguito della sua lunga prigionia in Germania parlava perfettamente il tedesco.
Il nemico gli era rimasto dentro, era sempre in lotta con lui.
Aveva continui incubi per le torture subite durante la prigionia, incubi che nel suo immaginario riaffioravano facendogli rivivere momenti terribili per poi placarsi esausto, dopo lotte titaniche, fra le braccia amorevoli dei suoi. Non amava raccontare particolari della sua prigionia, lo faceva solo sporadicamente anzi era brusco con chi gli poneva domande.
La sua storia la si è potuta ricostruire dai tanti soliloqui che intesseva con il nemico carceriere la cui immagine lo perseguitava incessantemente.

Ho visto soffrire mia madre tutta la vita per questo fratello devastato dalla guerra. Lei lo ha amato di un amore materno ed è stata sempre orgogliosa di lui perché “ricco di onori” ripeteva.

A noi figli ha insegnato ad amarlo, a rispettarlo, ad essere orgogliosi di lui, del sacrificio della sua giovinezza immolata per la patria. Attraverso lui ci ha insegnato i valori della vita, ad essere fieri di averlo avuto fra noi e di averlo assistito con dedizione fino alla fine dei suoi giorni avvenuta nel 2001.

Oggi, il suo ricordo è una testimonianza perenne della brutalità della guerra sempre crudele ed ingiusta perché dispensatrice di dolori e sofferenze a qualunque latitudine la si combatta, guerra che non fa mai sconti a nessuno vincitori o vinti che siano.

Lucia Becchere

L’Ortobene n. 34 del 27 settembre 2015

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