Caro Marcello

Dicono – l’ho sentito dire, giuro che in punto di morte si abbia facoltà di ripercorrere la propria vita.
A Ettore Manfredini, novantacinquenne, proprio questo accade e Marcello Fois ce lo racconta in “L’immensa distrazione” (Einaudi, 2025, p.280, € 19,50): “Ettore Manfredini, nonostante fosse appena morto, la mattina del 21 febbraio 2017 ebbe la netta sensazione di svegliarsi”.

Incipit da podio: chapeau ad un romanzo di spessore, dove “Morire…è come diventare un narratore onnisciente sia della propria vita, sia di quella degli altri, fino a vedere tutto in prima persona” (p.100); o anche, citando Tolstoj, “avere tempo di morire significa dare un senso alla propria vita” (p.201).

Garcia Marquez, Olga Tokarczuk, Jon Fosse, José Saramago (Nobel, si badi) e numerosi altri hanno utilizzato lo snodo narrativo del fine vita e le facoltà – di parola e altro – al morto o moriente.

La morte è già nel destino di Ettore Manfredini, che dalla quotidianità del macello kosher “ereditato”, ha tratto le sue fortune. Vive così il suo Bardo “Abbandonato in un territorio di rimpianti” (p.31). E parla della sua famiglia – moglie figli nipoti – sviluppandone le vicissitudini nel contesto storico più denso d’avvenimenti in Italia e nel mondo.

Marida è la moglie: non di un “matrimonio d’amore ma di riconoscenza (p. 56). Hanno avuto quattro figli – Carlo “un appassionato portatore di tragedia (p.27), Enrica che vive “una bramosia di approvazione paterna (p.120), Edvige, poi suora, e “Quello che Ester definiva Storia, per [lei] non era nient’altro che rivelazione” (p.139); ed infine Ester “votata alla puntualizzazione”, (p.129) il cui sogno ricorrente è il treno degli ebrei per Auschwitz.
Ci sono due nipoti – Elio e Filippo, il primo destinatario di un affetto smodato che regalerà al nonno i libri – tardiva scoperta – dai quali capirà “di non aver mai visto veramente la neve se non dopo avere letto i romanzi russi” (p. 29). Una stirpe verrebbe di dire, se non fosse che citeremmo il titolo di un suo bellissimo romanzo, primo di una trilogia attenta alle genealogie.

Un romanzo sulla morte, con la quale Ettore Manfredini ha dimestichezza, avendola conosciuta nelle declinazioni più crude – di familiari (malattia e povertà, guerra); sospetta delazione e deportazione della famiglia ebrea dalla quale ha – lui prestanome, il mattatoio; il carcere e il terrorismo; un’interruzione di gravidanza. La moglie Marida, alla cui diagnosi non vuole arrendersi prospettando un futuro di cure e consulti di luminari, che gli dice “davanti c’è solo il passato” (p.57).

Frammenti di vite a ricostruire il vissuto. Per elisioni successive ritornerà, in punto di morte, a ripensare alla contro fattualità della sua vita: se avesse evitato di insistere su carnibali come forma corretta, piuttosto che cannibali. La ricerca di questa parola – nel vecchio dizionario consultato da bambino – grazie a Filippo, il nipote nato da una relazione adultera di Claudio, è in certa misura la chiusura della storia, un po’ come la coda di porco dell’ultimo nato dei Buendia, che mette fine alla loro … stirpe.

Non a caso uso questa parola – Stirpe, il primo titolo della bellissima trilogia che ci ha regalato Fois per raccontarci dei Chironi: la loro vita, nelle contraddizioni di una società che cambia e che loro contribuiscono a cambiare. Faber quisque fortunae suae, e si sa che fortuna ha accezione neutra. Debito di memoria, mi si perdoni.

Romanzo storico, verrebbe da dire. Una biografia che è stentato congedo di un uomo assoluto – ab solutus – sciolto, libero di ripensarsi e che dà “divieto di apporre la data di nascita e di morte sulla sua lapide” (p.204).

Dove le Res Gestae restano sullo sfondo delle historae res gestarum, la narrazione di Ettore dei singoli frammenti. Consentendo che la memoria privata, i fatti di una vita, lascino sullo sfondo la malattia e la miseria, il dramma epocale dell’Olocausto, la disfatta dell’armata italiana in terra sovietica, il terrorismo, la globalizzazione.

La storia è studio dei cambiamenti e circostanze negate assieme ai progressi, da cui “L’orrore di novità … che poi si finisce per credere che siano sempre esistite” (p.260).

Microstoria e Storia sembrano binari paralleli del farsi di un grande romanzo storico – a suo modo da fine della storia, perché, parlando il morto nessun futuro è alle viste – “Essere morto gli stava insegnando che la sua unica responsabilità era il frammento di Storia che poteva portarsi sulle spalle”. (p.126)


Rubo una citazione, giustificativa della mia lettura – “(…) è totalmente secondario stabilire se le narrazioni esplicative fornite da una tradizione risultino veritiere, poiché è precisamente al suo interno che si determinano gli stessi significati di verità e falsità (…)” in C.Vidali. Fine senza compimento. La fine della storia in Alexandre Kojeve tra accelerazione e tradizione, Mimesis, 2020, p. 170).


Buona lettura, il libro merita.

Ruggero Roggio

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